Il nostro è un teatro dell’attore. Non ci sono tecnici, ci diamo luci e musiche che ci servono mentre recitiamo, tutto fa parte di una stessa scrittura. Non c’è un fuori, c’è solo un dentro.

RECENSIONI

dedicato a Leo De Berardinis

 
grazie a Valentina Sala per la sua tesi di laurea:

"Woizzecco. Il problema dell'attore-autore nella scrittura scenica di ASTORRITINTINELLI"

UNA PROLUSIONE
 
Eccellentissimo pubblico,

la ballata di Woizzecco è la storia di una battaglia e insieme di una resistenza,

una vertigine sulla disumanizzazione che nella bocca del secolo XX ci ha inghiottiti tutti quanti.

Siamo giunti oggi alla questione fondamentale del rapporto tra il soggetto e l’oggetto:

“se prendiamo una sola delle cose

in cui si manifesta ad alto livello l’autoaffermazione organica del divino

e ne esaminiamo i rapporti con lo spazio, con la terra, con il sistema planetario,”

ebbene signori, se prendiamo questo uomo, questa cavallinità insopprimibile

e lo mettiamo sull’orlo di un precipizio nero,

e lo facciamo precipitare,

come si comporterà “questa entità nei confronti del centrum gravitazionis e del proprio istinto?”.
      

            C’è qualcuno che voglia venire a salutarci dal buco nero?


Alberto  e Paola

da klpteatro


La ballata di Woizecco. Buchner nelle abili mani di AstorriTintinelli

Mercoledì 09 Maggio 2012 14:34 Renzo Francabandera

voto 5 stelle

Scriviamo queste righe su “La ballata di Woizecco” di Astorri/Tintinelli, andato in scena a Teatro I di Milano, con un raro, rarissimo sentimento, per noi voraci del teatro. È infatti con grandissima difficoltà che fruiamo spettacoli la cui ambizione è quella di creare un’opera d’arte. O meglio, è raro che l’ambizione sia coronata da successo, rivelandosi il più delle volte una solipsistica riflessione del regista/compagnia che, per il solo fatto di portare in scena qualche urgenza di natura personale, ritiene che la cosa debba in re ipsa contenere i germi del capolavoro.

Un’opera d’arte è invece un’inestricabile gomitolo emotivo in cui lo spettatore ha la chiara sensazione di aver saldo in mano il filo conduttore della comprensione, filo che poi l’artista avviluppa in modo tale da rendere il nodo fra chi assiste e chi va in scena indissolubile e comprensibile su piani altri, fissando nella mente del fruitore, immagini, sequenze, sapori, che restano inossidabili nel tempo.

Da questo punto di vista capiamo anche perché il Woyzeck sia così spesso utilizzato da chi fa ricerca nel teatro (Morganti fra gli altri, giusto per citare un artista che con questo testo si è confrontato a più riprese): il compiuto/incompiuto che è dell’opera stessa, il concetto di asservimento alla missione e al sentimento fanno di questa drammaturgia, più fortemente che di altre dalla trama più intricata, un corpo capace di astrarsi dalle regole della fisica teatrale, per piegarsi a forze vettoriali altre, nuove, in grado di piegare il testo alle regole del proprio campo di indagine.  

E qui ci ricolleghiamo al discorso iniziale sull’opera d’arte, perché questo tipo di operazioni in cui il testo, la trama, l’intreccio soggiacciono all’ardimento artistico, è cosa sempre pericolosa.
Alberto Astorri e Paola Tintinelli risolvono questo dilemma con una sfrontata, incosciente, volontà quasi kantoriana di portare in scena il piccolo circo del sentimento con un piglio originalissimo, al cui interno si condensano anche più profonde riflessioni sul senso della macchina teatrale.

La messa in scena a cui assistiamo (lo precisiamo perché pare la cosa cambi di sera in sera) inizia con un cantastorie stonato che intona canzoni di tono neomelodico dal testo improbabile. La cosa va avanti per un po’ finché Astorri, che occupa il fondo della scena, seduto allo specchio di un camerino teatrale aperto, rianima il pubblico con un megafono, spiegando che si trattava di un errore e che l’artista menestrello aveva sbagliato locale.

A questo punto la Tintinelli scende dal ponteggio di tubi sul quale è rimasta fino a quel momento seduta e con fare un po’ intontito si porta sul lato sinistro della scena, dove è collocata la consolle, dalla quale dirigerà (e qui si spiega anche l’aggettivo “kantoriana”) la parte tecnica dello spettacolo dall’interno. Al centro della scena si trova una struttura in alluminio realizzata dagli stessi artisti con una sedia, una scritta “Woyzeck” a cui mancano delle lettere e una sorta di proscenio all’interno del quale sono oggetti di metallo diversi, lattine vuote, una vecchia tinozza e strumenti per la rasatura.
L’attore abiterà questo luogo, anche indossando maschere del tempo in cui lavorò con Leo De Berardinis. Questo spettacolo infatti risale a otto anni fa, agli ultimi giorni di quella scuola e ai primi passi del duo Astorri/Tintinelli come artisti. Delle fatiche del soldato tradito, del suo vorticoso “Corri! Servi! Radi! Porta il peso della vita!”, lo spettacolo riesce a dare l’amaro sapore nella forma più estrema, pur adottando senza riguardi il tono della sguaiata ironia del presentatore di fenomeni da baraccone.

La Tintinelli, che è vestita quasi da Charlot, con il volto bianco di cerone, diventa emblematico condensato di tristezza in poche ma assolute scene in cui, pur senza mai proferir parola, viene portata alla ribalta dal gradasso mangiafuoco di questo teatrino. “Fai il mondo cane!” le ordina lui con il megafono, e lei, muovendosi quasi meccanicamente, getta con rabbia per terra qualche lattina raccattata qui e lì, per poi indossare una bellissima maschera di alluminio che la trasforma in asino.

Neanche Astorri e Tintinelli salveranno Woyzeck dal suo tristissimo destino. Di lui rimangono impressi il meccanico di portare la mano al capo in segno di obbedienza militare, il frenetico radersi, quasi come missione di vita e il reggere pesi, portando la trave della vita sulle spalle, come un qualsiasi Cristo al Golgota.
Lo spettacolo finisce e non finisce, come una secchiata d’acqua sulla testa dello spettatore, che come un asino finisce per battere le mani al momento sbagliato.

Il lirismo intrinseco del lavoro si impreziosisce di citazioni poetiche e musicali raffinatissime, fino a “La Moldava” di Smetana. Nulla di questo lavoro è superfluo, tutto si incastra e incastra in un gioco criminale dall’esito perfetto.

Si assiste di rado a messe in scena così coraggiose: a me sarà successo una decina di volte, da quando giro per teatri. È per questo che al sudore, al coraggio artistico, alla forza creatrice ed incosciente del Woizecco di Alberto Astorri e Paola Tintinelli vanno le mie più convinte cinque stelle.

LA BALLATA DI WOIZZECCO
Una rilettura del Woyzeck di G. Buchner
regia: Astorri Tintinelli
produzione: AstorriTintinelli
di e con: Alberto Astorri e Paola Tintinelli
applausi del pubblico: 4' 07''

Visto a Milano, Teatro I, il 16 aprile 2012

SCHEDA TECNICA

La ballata di Woizzecco nasce da una nostra passione per G. Buchner

e in particolare per il suo Woyzeck a cui questo spettacolo fa riferimento.

Il Woyzeck: quello che è tra gli ultimi e corre la terra come fosse una lama di rasoio,

quello che per guadagnare la vita obbedisce alle marce della guerra,

quello che per sottrarsi alla miseria si riduce a cavia e provetta per la scienza,

quello che è sempre sull’orlo di un precipizio perché sente il mondo che s’infuoca e il vuoto dentro,

quello che uccide la propria donna nella tragedia della disperazione e della gelosia.

In questo nostro lavoro tutto ciò si rimette in movimento dentro una giostra di baraccone,

una sorta di ring, avamposto e fortino dove l’esibizione diventa perpetua.

Così Woyzeck veste i panni di un cavallino astronomico,

animalità soppressa dal raziocinio e diventa Woizzecco;

si espone nelle vesti dell’imbonitore del baraccone,

“raissoneur” dell’opera e aguzzino  esemplare,

che non solo porta su di se i corpi e la memoria degli altri personaggi buchneriani,

il Capitano, il Dottore, Marie, il Tamburmaggiore.

E’ la stanza di reclusione di una veglia funebre dove si è costretti a rimanere con i propri morti

e far con i loro resti la storia daccapo.

L’assolo si rompe su due corpi, il suonatore e il suo strumento, il domatore e la sua fiera

perché la tragedia si fa di un legaccio che ci annoda ad altri di cui decidiamo e da cui siamo decisi.

Woizzecco traballa, gira a vuoto, inciampa sulla scena per darsi ad una danza contro la propria esistenza

che non muore e lo condanna ad esibirsi nell’incrinatura, nell’assassinio, atto opaco che lo guida e lo decide.

FOTO di Emiliano Boga

da Paneacqua


Rilettura folgorante del testo di Büchner della compagnia Astorri-Tintinelli, dedica a Leo de Berardinis


scritto da Elena Scolari

19 aprile 2012

“Nella grappa c’è il mondo, bevila!”. Questo viene suggerito al buon soldato Woyzeck (qui ribattezzato in un parodico Woizzecco) dal suo commilitone Andres e questa battuta servirà ai nostri lettori per avere subito una sensazione riguardo all’atmosfera dello spettacolo: ebbra, storta, apparentemente confusa, e disordinata, anche un po’ sporca.

Attenzione, però: tutto questo è da intendersi in accezione positiva, eccome! Il testo di Büchner, rimasto incompiuto, è formato di molte scene brevissime, che sembrano fatte apposta per essere smontate, rigirate, spostate e riassemblate. Alberto Astorri e Paola Tintinelli hanno fatto proprio così, rendendo perfettamente la tragicità sgangherata di questa specie di favola.

Woyzecco è fidanzato con Marie, incinta, cerca di sostenere questa famiglia non istituzionale, (i due non sono sposati), il protagonista accetta perfino di fare la cavia per strani esperimenti al soldo di un perfido medico che lo riduce a fenomeno da baraccone, e proprio un baraccone da circo è quello dove i due vedono un imbonitore mostrare un animale mostro, un freak. Il soldato è ingenuo, insicuro, e qualcuno gli inocula il sospetto che Marie lo tradisca con il Tamburmaggiore, il quale occhieggia a Marie nel tendone. Da qui la fiducia di Woyzzecco comincia a rompersi, a zoppicare, la sua moralità è colpita e si convincerà di dover uccidere la donna. Finirà per accoltellarla in un accesso di follia e disperazione.

Astorri è tutti i personaggi, anzi: Woyzeck è anche tutti gli altri, e passa da uno all’altro in una catena incoerente e continua di spezzoni giustapposti e legati tra loro da pochi oggetti, oggetti da officina, da rigattiere, maschere, secchi di metallo, croci… Astorri dimostra qui, ancora una volta, la sua bravura, l’alta capacità drammatica mai priva di ironia, un modo personalissimo di togliere i contorni ai personaggi, interpretandoli come se ognuno di loro mantenesse un pezzetto del precedente.

L’uso della voce e la pluri-interpretazione ricordano Carmelo Bene, omaggio a Leo de Berardinis è invece l’autonomia dei due artisti: Paola Tintinelli è impeccabile nel suo ruolo di tecnico luci e audio interno alla scena, compie tutto l’accompagnamento stando di spalle, a fondo palco, la precisione chirurgica di questa partitura teatrale è evidente proprio nell’armonia tra i due, che pur non si vedono. Tintinelli è un folletto operaio che interpreta “l’animale” del circo, è un manovale musico.

La straordinarietà dello spettacolo è anche nella casualità soltanto apparente di ciò che accade in scena, c’è un andamento che ci stordisce, la narrazione non è lineare, o meglio non c’è narrazione ma racconto per stazioni di una via crucis che Woyzzecco vive, in un ciclo senza fine, portandone anche fisicamente, la croce.

Due artisti di primordine hanno composto lo spartito di questo spettacolo, musicale e drammaturgico, che lascia lo spettatore traballante, come il protagonista, i suoni viaggiano tra Rossini e la Santissima dei naufragati di Vinicio Capossela, ma in questo “baraccone” lirico si avverte un lavoro ricco e complesso, durato anni, la scelta della regia interna senza interventi a distanza, nemmeno di ordine tecnico, regala una compiutezza rara.

La ballata di Woyzzecco è un orologio con ingranaggi incastrati perfettamente, anche se a volte sembrano girare al contrario.