Fra le realtà che rispondono a questo laconico identikit possiamo di certo annoverare Astorritintinelli, ovvero la coppia formata da Alberto Astorri e Paola Tintinelli. Da 15 anni lavorano su tracce del passato come del contemporaneo, tendenzialmente non scrivono e danno vita ai loro titoli partendo da una gran mole di spunti, letterari, artistici e ovviamente teatrali. Nei giorni scorsi sono passati da Monza per la rassegna L’altro binario nella sala Picasso del Binario 7 con 45 giri, che sono due lavori in uno. Il Lato A, Immaginazione al potere, e il Lato B, Folliar. La loro forza sta nella grande capacità di mettere insieme tutti gli elementi del linguaggio teatrale, tutti i suoi strumenti senza rinunce. Fisicità, movimento, voce, luce, scena, interazione, suono, rappresentazione, immaginazione, presenza e assenza. Divertendo, commuovendo, infastidendo anche. Aprono tanti sentieri, a noi il compito di scegliere su quale incamminarci, per arrivare da qualche parte o per perderci. Perché no.

Solleticano l’attenzione ora con un dialogo lineare, ora con lo scarto di senso. Il senso. «Deve l’arte avere un senso?» si chiedeva a fine spettacolo Astorri dialogando col pubblico. Certo che sì — direi — è proprio quella la differenza fra arte e intrattenimento, purché non si confonda il senso con il significato nudo e crudo, con il messaggio didascalico, con il dover capire per forza tutto e facilmente. Come facevano notare sia Astorri che il padrone di casa, Corrado Accordino, non si deve confondere l’arte con la comunicazione. Aggiungo: non si deve confondere l’arte con la propaganda, con lo slogan inequivocabile. «L’arte non è comunicazione, è espressione» aggiungeva ancora Astorri. Sempre la grande arte è fatta da più livelli di lettura, sta allo spettatore (al lettore, al visitatore, all’ascoltatore) decidere quanto scavare: fermarsi alla superficie? Individuare i rimandi alle scritture di riferimento? Tornare a casa e rileggerseli? Ecco cosa intendo quando parlo di qualità: la capacità di offrire “soddisfazione” a chi vuole verticalità in un tempo, il nostro, in cui siamo quasi rassegnati ad una piatta, omologata, orizzontalità.

I lavori belli, importanti, rilevanti sono quelli che sedimentano nel profondo e a lungo. Sono quelli che non hanno timore di affrontare i grandi temi della vita (dolci o dolorosi, di oggi o di sempre). «L’arte non può cambiare il mondo. Può aiutare a cambiare noi stessi forse». Potrebbe sembrare un ripiego, la pietra tombale sui grandi pensieri, sui sogni collettivi del secolo scorso. Forse, invece, è un inizio. La chiamano resilienza. Dopo il grande botto, ci stiamo ritrovando, per adesso singolarmente, uno per uno a immaginare e sognare il futuro? Senza illusioni forse, con disincanto probabilmente. Ma da qualche parte bisogna ricominciare. Non possiamo e non dobbiamo rassegnarci ad idolatrare il mercato e la moneta. Non vogliamo essere telecomandati dal marketing. Laciamolo fare all’art system. Noi proviamo a respirare e vivere.
L’asterisco di Vorrei questa volta va a questi due bellissimi artisti.

*Astorri Tintinelli.  È una questione di qualità

Di Antonio Cornacchia - 23 Dicembre 2017
 su Vorrei | Rivista non profit

La grande arte non ha mai un solo livello di lettura.

Al teatro di Alberto Astorri e Paola Tintinelli l'asterisco di Vorrei

Avviso al lettore: questa è una premessa piuttosto lunga, se vuoi andare dritto alla parte che riguarda Astorritintinelli, leggi la colonna a fianco, e saltala non mi offendo.

 Da qualche tempo si fa sempre più forte in me la sensazione che in questi anni fra le arti la più “viva” sia quella teatrale. Questo è per me, allo stesso tempo, motivo di felicità e di sconforto. Felicità perché il teatro mi fa scoprire ogni settimana autori e poetiche interessanti, ma perché di sconforto? Io di formazione sono artista visivo, vado in estasi per un quadro di Kiefer o per una pala di Bergognone, per una installazione di Kounellis o per una tela di Lorenzo Lotto. Che siano opere di 600 anni fa o di oggi non fa differenza, quella la fa la qualità (un insieme di piacere estetico, sollecitazione intellettuale, sovrapposizione dei piani di lettura…). Frequento biennali, gallerie e musei da quasi 30 anni e mai come negli ultimi dieci ho provato la sensazione di noia e di autoreferenzialità nella stragrande parte delle produzioni degli artisti contemporanei, anche quelli super acclamati a livello mondiale. Troppe volte ci si trova davanti a idee piccole piccole camuffate da produzioni grandi grandi. Intuizioni assai banali ricoperte di verbosissime quanto incomprensibili tiritere intorno a concetti irrilevanti per chiunque al di fuori del sistema. Ve ne propongo una giusto per capirci e con tutte le premesse del caso (non si citano parole fuori dal contesto, occorre essere esperti eccetera eccetera) e sottolineando che non c’è nulla di personale nei confronti dei diretti interessati.

L'atto demiurgico

G.:Cosa intendi quando parli di atto demiurgico nel tuo lavoro artistico?
C.:Intendo con ciò la dinamica dell’attuarsi di un’immagine particolare nell’immaginazione dell’osservatore. È particolare perché costituisce nel suo profondo chi guarda. Una tale immagine si potrebbe pensare come “immagine prima” in quanto dà inizio all’immaginazione e per questo motivo la definisco un’“immagine seme”. Credo che “l’immagine seme” sia preesistente nell’abisso psichico dell’essere umano e, dando il via all’immaginazione, in realtà dà il via a immaginare essenzialmente se stessa. Potremmo immaginare l’“immagine seme” come il nostro “intimo fantasma” che viene attuato con la concretezza dell’opera. Qualche anno fa avevo definito l’opera d’arte come dispositivo per atti demiurgici. L’opera d’arte come dispositivo per atti demiurgici ci predispone all’immaginazione abissale di noi stessi. Intendo con ciò l’essenziale immagine di noi stessi (e qui mi affiderei all’intuizione e non necessariamente alla comprensione). La definizione di “immagine seme” in realtà è nata a partire dal lavoro Dispositivo per creare spazio del 2007, che poi, nel 2010, in una versione modificata ho intitolato Immagine seme. Essa consiste in una lastra di marmo nero del Belgio con un contorno frastagliato che ricorda, a tratti, delle silhouette di paesaggi oppure un buco nero. La lastra è  appoggiata al muro e accoglie la caduta della polvere d’intonaco della parete. L’intonaco viene rimosso con la carta vetrata. La polvere che scende sulla lastra sembra una nevicata notturna o un cielo stellato e crea l’idea di spazio. La mia azione non viene mostrata al pubblico ma fa sì che attraverso il suo elemento effimero possa essere continuamente attuata nell’immaginazione dello spettatore. Questo lavoro corrisponde all’immagine seme. Ogni qual volta che io, tu o qualcun altro la attiviamo guardando l’opera, creiamo un’immagine che in realtà è già la nostra in modo latente. Generare quest’immagine significa percepire dei gesti e degli atti che diventano per osmosi psicofisica gesti e atti di chi sta guardando. La natura dell’immagine è performativa. Tale natura performativa dell’immagine è evidente già nelle sculture con le risme di carta come Attimo o Solamente del 2000. Guardare, dunque, tale immagine significa evocarla sempre di nuovo e ciò è un atto demiurgico perché solo in quel momento l’opera viene essenzialmente creata e ricreata, tutto il resto sono fattori ontologicamente irrilevanti e spesso appartengono a vari temi narrativi. Questa caratteristica della narrazione mediata non costituisce di certo il mio lavoro. Paradossalmente va creandosi, comunque, un certo tipo di narrazione nel momento in cui si descrive la percezione dell’“immagine seme”. L’immaginario che ne segue assomiglia, piuttosto, alla struttura iniziale del mito.

(fonte)

 Non potendo disporre ancora di una app o di un dispositivo tecnologico che misuri e avvisi in caso di irrilevanza, ho dovuto mettere a punto un sistema tutto mio — tanto elementare quanto infallibile — per valutare di volta in volta l’importanza di quanto trovo in una mostra; funziona così: osservo con attenzione, ascolto se c’è da ascoltare, leggo per quanto si riesce (delle didascalie parliamo un’altra volta…) e poi mi pongo la domanda “Se non l’avessi visto, starei meglio o peggio di adesso? Sarei una persona migliore o peggiore? Il mondo potrebbe farne a meno?”. Provateci anche voi.

Molto meglio di me (e da posizioni anche molto diverse fra loro) hanno affrontato la questione studiosi e intellettuali come Marc Fumaroli, Jean Clair e Mario Vargas Llosa sottolineando come il micromondo dell’arte contemporanea sia precipitato in un gorgo in cui a smuovere l’acqua non sono più le grandi ambizioni intellettuali, poetiche, politiche e culturali degli artisti, ma più prosaicamente quelle commerciali. In una sintesi molto rozza potremmo riassumere: oggi per il sistema dell’arte non sono più i migliori artisti a valere di più (sul mercato), ma sono quelli che valgono di più sul mercato a essere considerati i migliori artisti. Un sintomo? Su giornali, tv e media mainstream di qualsiasi natura si parla di arte solamente quando arriva la notizia di quotazioni eclatanti o di “eventi” eccezionali come le folle per Christo sul Lago d’Iseo nel 2016. Fumaroli, Clair e Vargas Llosa vengono generalmente derisi (dinosauri! conservatori! anti-moderni!) dalla stampa e pubblicistica di settore, organica com’è a questo sistema che se la suona e se la canta sulle barricate in difesa del mercato e di se stessa come neppure la moda, commerciale per sua natura, saprebbe fare.

Annoiato (tradito?) dalle arti visive, trovo sempre più conforto nel teatro. Lì dove già in partenza sappiamo che nessuno diventerà mai ricco sfondato come un Jeff Koons o un Damien Hirst, possiamo immaginare che le ambizioni tendano ad essere ancora romantiche — ma preferisco dire artistiche — e che gli artisti vogliano ancora provare a cambiare il mondo e non solo il proprio conto in banca. Va da sé che non parlo del teatro figlio degli show televisivi con relative figurine o dei tromboni da palcoscenico, vecchi o giovani che siano. Parlo di un teatro coraggioso nel non assecondare supino il marketing, capace di stimolare e sfidare lo spettatore senza fornire consolazioni, colto senza essere saccente, imprevedibile senza essere irritante. Divertente anche.


foto di Gabriele Lopez

foto di Laura Pezzenati

due studi sul Paese e sull’Arte della scena
 
lato A - IMMAGINAZIONE AL POTERE

è un approfondimento ispirato alla prima parte della nostra ultima creazione “Il sogno dell’arrostito”

in cui un uomo e una donna in uno spazio vuoto cercano di reinnescare il motore dell’immaginazione su un copione già scritto.

La raccolta dei sogni che abbiamo condotto nell’ultimo anno col nostro pulmino in giro per strade, piazze e mercati

ha evidenziato la mancanza di sogni nelle persone o comunque la difficoltà di rilanciare un nuovo immaginario.

Immaginazione al potere è stata una delle parole d'ordine degli studenti del sessantotto,

ai quali il filosofo Marcuse (ideatore della frase) guarda come veicolo attraverso il quale si può realizzare la liberazione.

La ragione e il linguaggio non sono più in grado di trascendere la realtà e di opporre un "grande rifiuto" al modello vigente,

per questo l’umanità deve appellarsi all’ immaginazione,

unico strumento capace di comprendere le cose alla luce della loro potenzialità.

Per poter realizzare delle cose bisogna prima immaginarle,

così come per cambiare le cose bisogna prima immaginare il cambiamento,

immaginare le cose cambiate…”

 
lato B - FOLLìAR

Invece vuole essere una riflessione sull’arte della scena in cui due attori di beckettiana memoria

si confrontano sul fallimento dell’Arte e sulla sua  inutilità rispetto alle vicende del mondo.


Questo studio  è stato realizzato per la prima volta lo scorso settembre a Contemporanea Festival di Prato.

Ci avevano chiesto di pensare a qualcosa che fosse un punto sul nostro percorso artistico

e allo stesso tempo una riflessione sul Teatro.

 Platone diceva che il potere dell'arte sull'animo umano era così grande che avrebbe potuto da solo

distruggere il fondamento stesso della città e tanto più a malincuore riteneva che andasse bandito. 

Il destino dell'arte è ancora quello di cambiare la vita ?

Non dovrebbe far rimpiangere una bellezza perduta da poterla poi rivendicare nella vita di tutti i giorni?
Questi interrogativi sono stati il nostro punto di partenza.

 E l'arte dell'attore è la nostra boa a cui rimanere aggrappati in questo tempo di tempeste e di confusione

Ci sentiamo esuli, questo sì, come Lear e il suo Fool, girovaghi in un regno senza più centro. 

Il Lear di Shakespeare, ecco l'altra boa per questo studio dove due attori, uno zio e un nipote, l'uno cieco e l'altro matto

cercano di riconquistare il destino della poesia nella loro cantina con l’ossessione della prova e dell’esercizio.

Chi non si esercita non è niente.

Mentre la grande opera, quella fuori, quella del mondo, continua la sua necessaria mutazione,

questi due clown vivono l’inutilità e la grandezza della loro scelta.

Questo studio è dedicato anche a Thomas Berhnard e in particolar modo a "La forza dell’abitudine”